di Davide Baroni Scrittore
ARCHEOMITO – Tra i più affascinanti enigmi del passato non possiamo dimenticare il sito di Comalcalco, nello stato messicano di Tabasco, un mistero che ha attirato l’attenzione di ricercatori e appassionati di tutto il mondo. Come sottolineato da Maria Longhena, nota studiosa delle culture precolombiane, che affronta questo argomento nel libro di Elio Cadelo L’oceano degli antichi, Comalcalco si distingue nel panorama dell’architettura maya per una serie di anomalie che alimentano una domanda suggestiva: è possibile che i Romani abbiano avuto contatti con il mondo mesoamericano? Al centro di questa ipotesi c’è l’inusuale tecnica costruttiva utilizzata nel a Comalcalco, l’unico tra quelli conosciuti della civiltà maya in cui gli edifici siano stati realizzati con mattoni cotti in forno e tenuti insieme da una malta a base di conchiglie frantumate. Questa scelta costruttiva, dettata probabilmente dalla scarsità di pietra calcarea nella regione, si discosta nettamente dalla tradizione architettonica maya, che prediligeva blocchi scolpiti e incastri a secco, e appare sorprendentemente simile a quella impiegata in molte aree del mondo mediterraneo, in particolare nell’Impero Romano. Ma a rendere ancora più intrigante la questione non è solo la tecnica costruttiva, bensì la presenza di simboli incisi sui mattoni: alcuni di essi sono chiaramente glifi maya, ma altri presentano tratti che sembrano ricordare lettere latine o simboli romani, un dettaglio che ha sollevato interrogativi profondi sull’origine di queste influenze. Maria Longhena e Elio Cadelo suggeriscono che navigatori romani possano essere arrivati sulle coste americane ben prima di Cristoforo Colombo, forse per sfruttare le risorse di quelle terre, per avere nuove rotte commerciali o per la necessità di fuggire dal mondo conosciuto. I Romani, noti per la loro straordinaria ingegneria e per l’audacia dei loro commerci, avrebbero potuto affrontare un viaggio transatlantico, magari sfruttando correnti e venti favorevoli, sull’esempio di popoli marinari come i Fenici, da cui ereditarono molte conoscenze nautiche.
Gli indizi di contatti transoceanici in epoca romana trovano un ulteriore e fondamentale supporto nell’analisi di elementi botanici e alimentari. Gli studi condotti ancora una volta da Elio Cadelo questa volta nel testo Piante americane (e non solo) nella Roma imperiale. I commerci transoceanici dei Romani, dimostrano come diverse specie vegetali di origine americana fossero già presenti in Europa ben prima delle scoperte ufficiali del Nuovo Mondo.
La presenza di piante come il mais, l’ananas e altre colture tipiche delle Americhe all’interno di contesti romani suggerisce con forza l’esistenza di scambi commerciali transoceanici ben più antichi di quanto comunemente accettato dagli storici accademici. Tra gli esempi più eclatanti figura il mais, pianta ritenuta di provenienza americana e introdotta in Europa solo dopo i viaggi di Colombo. Tuttavia, alcuni reperti archeologici mostrano raffigurazioni di questa coltura in epoca romana, oltre a resti pollinici e fitoliti riconducibili a tale pianta ritrovati in scavi risalenti ai primi secoli dell’Impero. Il mais è stato identificato in decorazioni musive e in bassorilievi di epoca romana, il che lascia intendere che questa pianta non fosse affatto sconosciuta nel Vecchio Continente. Se fosse stata davvero una coltura del tutto estranea al mondo mediterraneo, non avrebbe avuto alcun senso rappresentarla in un contesto artistico. Un altro caso altrettanto interessante riguarda l’ananas, frutto ritenuto tipico delle Americhe, la cui presenza in epoca romana è attestata da una serie di elementi iconografici. In particolare, alcune rappresentazioni scultoree e alcuni affreschi trovati a Pompei raffigurano il caratteristico frutto dalla buccia squamosa e dalla chioma appuntita. Anche in questo caso, la conoscenza dell’ananas da parte dei Romani suggerisce che i loro contatti con l’America fossero molto più concreti di quanto la storiografia ufficiale voglia ammettere. Altre piante di origine americana, come il peperoncino, il fagiolo e alcune varietà di zucca, sembrano essere state già note in epoca imperiale, e la loro eventuale presenza nel bacino del Mediterraneo non può essere spiegata con semplici teorie di contaminazione post-colombiana. Le tracce di queste colture nei siti archeologici romani indicano la possibilità di una circolazione molto più ampia di prodotti agricoli tra le due sponde dell’Atlantico, mettendo in discussione la rigida separazione tra il mondo antico europeo e quello americano precolombiano. Inoltre, le testimonianze scritte dell’epoca, pur senza citare esplicitamente il Nuovo Mondo, accennano alla presenza di piante e prodotti esotici di origine incerta. Diversi autori romani parlano di frutti mai visti prima, spezie e sementi dalle proprietà insolite, il che potrebbe indicare un commercio che si spingeva ben oltre i confini conosciuti dell’epoca.
Nonostante questo, la maggior parte degli archeologi e degli accademici mantiene una posizione prudente, ma ormai sono tante le prove destinate a far crollare il vecchio paradigma sui viaggi nell’Atlantico, e il sito archeologico di Comalcalco potrebbe diventare la chiave per riscrivere una parte del nostro passato.